Spesso capita che una domanda si imponga, fra il curioso e il perplesso, in colui che volesse - per amor di conoscenza - avventurarsi nella labirintica babele della psicologia contemporanea: qual è, in soldoni, la differenza fra psicoterapia e psicoanalisi? In cosa si somigliano - e in cosa differiscono - questi due approcci che sembrano etimologicamente così simili e nei fatti così lontani? La questione si presta a molteplici riflessioni, semplici e sofisticate al contempo.
Innanzitutto, occorre sottolineare un dato di fatto: tutti gli psicoanalisti sono anche psicoterapeuti. Eppure, non tutti gli psicoterapeuti sono anche degli psicoanalisti. Infatti, se nel primo caso i due approcci sono accomunati a livello legale, nel secondo differiscono invece per la specificità della formazione.
Esistono ad oggi numerosi orientamenti psicoterapeutici, e di nuovi continuano a nascerne. Il più diffuso rimane quello cognitivo-comportamentale, perché maggiormente riconosciuto dalla mentalità medica. Pertanto rappresenta il riferimento principale e il metro di paragone per qualunque approccio psicoterapeutico “scientificamente” orientato.
Al di là delle scissioni e dei contrasti che hanno caratterizzato la storia del movimento psicoanalitico, la psicoanalisi - e in generale tutti gli orientamenti psicodinamici ad essa riconducibili - rimane necessariamente freudiana nel suo fondamento, con tutto ciò che ne consegue in termini di formazione e riconoscimento scientifico, politico e sociale.
Per esercitare la professione di psicoterapeuta e psicoanalista occorre generalmente una sensibilità e una capacità di ascolto affinata attraverso un lungo percorso di formazione personale e professionale. Ciò che differisce dall'approccio cognitivo-comportamentale è il ruolo assegnato al terapeuta all’interno del setting clinico.
Lo psicoterapeuta di formazione cognitivo-comportamentale, infatti, assume generalmente un ruolo apparentemente più attivo, si confronta con il paziente, lo consiglia e lo incoraggia, lo critica e lo mette di fronte alle contraddizioni del suo discorso e del suo agire. Il terapeuta cognitivista suggerisce e sconsiglia, cerca sul piano di realtà una soluzione ai problemi che gli vengono di volta in volta presentati.
Uno psicoanalista generalmente parla poco e soprattutto non consiglia, non spinge il paziente in nessuna direzione. Ascolta e cerca, piuttosto, di non ostacolare con i suoi interventi la ricerca delle cause inconsce della sofferenza che ha portato un soggetto a domandare un percorso di psicoterapia. Non suggerisce soluzioni - ammettendo di non averne una valida per tutti - ma garantisce a ciascuno il tempo necessario a trovare la propria (con la convinzione che sarà la soluzione più giusta per ciascuno proprio perché soggettiva e singolare). Uno psicoanalista ha come scopo prioritario quello di dirigere la cura, non il paziente. I suoi interventi puntano a far emergere la causa rimossa del sintomo per dissolverne il potenziale patogeno.
Quelli appena esposti, in maniera evidentemente sommaria, sono aspetti che comportano distanze sostanziali, teoriche e di metodo, nell’approccio al cosiddetto trattamento del paziente. Al di là delle differenze, però, ciò che rimane fondamentale e non negoziabile è la dimensione etica insita in un percorso di ascolto e di cura, l’unica e imprescindibile garanzia di serietà e professionalità a cui ciascun professionista, terapeuta o psicoanalista che sia, è chiamato a conformare la propria pratica.